Contributo (del Bodo’s Project) sugli spazi autogestiti del 5 Giugno 1985
I nostri comportamenti, mossi dalla forza del desiderio, smentiranno l’illusione del potere.
Proprio in un momento particolare come questo dove i tempi si stanno aprendo e presto il cielo cadrà sulla terra, nasce dentro di noi una consapevolezza irresistibile, la necessità di muoversi diversamente. Al di fuori di ogni schema ideologico tradizionale; fuori da “chiese” o “miti” da difendere o rappresentare.
Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!
La nostra lotta non ha come fine semplicemente “migliori condizioni di vita”, ma ha come obiettivo ultimo la Rivoluzione Sociale. La nostra lotta vuole raggiungere la libertà reale e il diritto ad una nuova vita nella sua totalità. Ci opponiamo a tutte le forme di organizzazione che abbiano in sé il principio della delega e della gerarchia fisica e morale. Secondo il nostro parere è bene costruire organismi nei quali o si decide tutti insieme o non si decide nulla.
Esiste quindi la necessità di una comunicazione antagonista, fuori dagli schemi ideologici e oltre la tradizionale informazione-formazione della propaganda. Esistono nuove forme di aggregazione sulla disperazione nelle metropoli, sulla disperazione territoriale dei soggetti subalterni, momenti di aggregazione che spesso si ignorano e che tuttavia appaiono in grado di affrontare la realtà degli anni ’80 con gli strumenti degli anni ’80.
Tra i essi i punks sono riusciti, forse meglio di tutti, a dimostrare una nuova capacità di comprendere “il territorio”, ricercando spasmodicamente una nuova coesione, tracciando in definitiva un rapporto nuovo fra parola, immagine e suono. I punks sono sempre stati espressione più di una condizione del sottoproletariato urbano emarginato, che esperienza musicale. Per dirla alla Rotten: “Essere punk vuol dire essere un fottuto figlio di puttana che ha fatto del marciapiede il suo regno, un figlio maledetto di una patria giubilata dalla vergogna della monarchia, senza avvenire e con la voglia di rompere il muso al suo caritatevole prossimo”. Spontaneità, distruzione anarchica, non futuro, quindi non-costruzione. La musica come pretesto, come pulsazione di messaggi, i gruppi punk più una banda di teppisti, un’associazione per delinquere, piuttosto che leghe di gruppi pacifisti o gruppi politici. Certo, se c’è stata involuzione, ed oggi lo si può dire, ciò è dovuto alla trasformazione in politica organizzata della rivolta; quindi meno antagonismo sovversivo, più compromessi. Far parte di un sistema chiuso non significa non comunicare e non incidere sul mondo esterno. L’antagonismo non si esprime solo tramite forme di espressione organizzata del proprio malcontento. Ci sono forme più immediate per incidere profondamente sulla società: ad esempio un modo diverso di vestirsi, pettinarsi, di ballare e di fare musica. Queste forme non “mediate” di comunicazione paiono più nichiliste o volte al nulla. Non si comprende che il loro significato non risiede nella mancanza di un “qualcosa da costruire”, in un fine ultimo, bensì nella pura comunicazione del disagio e della disperazione in cui vive la maggior parte degli esseri umani. Quando la comunicazione del proprio disagio e della propria disperazione non si presenta legata ad istanze costruttive – quindi “politiche” in senso tradizionale – è rifiutata in quanto “diversa”.
Al contrario le rivendicazioni politicamente organizzate, anche quando si presentano come estremiste e quindi condannabili dal sistema dominante, sono immediatamente riconoscibili perché riconducibili a “qualcosa” di appartenente ai codici di comunicazione utilizzati normalmente. Quando il linguaggio dell’espressione cambia (musica, vestiti, creste) la comunicazione con i sistemi di vita limitrofi (scuola, famiglia, lavoro, ecc) salta, ed appaiono in tutta la loro dirompenza le contraddizioni sociali.
L’autogestione generalizzata dell’Universo trasformato è il fine a cui deve puntare un movimento “reale”; ogni tentativo che si traduca in autogestione di frammenti dell’inerzia dell’esistente, non può che convertirsi in autogestione della propria schiavitù.
Nel suo divenire l’autogestione generalizzata è essenzialmente “autogestione creativa”, negazione determinata e rivoluzionaria dell’esistente, quale organizzazione del fittizio.
Se provocazione significa uomini e donne che non accettano le miserie del gioco politico; se significa nuclei informali che sfuggono ad ogni schema di racket gerarchizzato; se contrassegna esperienze mai riducibili ai precetti delle teorie “rivoluzionarie” sconfitte dalla storia e fatte proprie dalla contro-rivoluzione; se distingue chi non subisce l’interiorizzazione del capitale e combatte ogni forma d’autovalorizzazione; se qualifica lo sviluppo di un pensiero e di una pratica che rifiutano di costituirsi in sfere separate dal vissuto individuale come collettivo; se provocazione significa tutto questo “allora noi siamo provocatori”.
PARTECIPIAMO TUTTI ALLA MANIFESTAZIONE SUGLI SPAZI AUTOGESTITI DEL 15 GIUGNO