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elogio a franti

Da “Diario minimo – Elogio a Franti” di Umberto Eco – anno 1962

“E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.” Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico [N.d.R.: si tratta di Enrico Bottini, personaggio di fantasia sul diario del quale si basa l’intero racconto del libro Cuore di De Amicis] introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisiognomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché. Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto. …

… Franti non ha sostrato, non si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia, accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche della sua perfidia. …

… Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre distinto con una gran barba nera.

Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico tiene a precisare che Franti “fece una risata a un soldato che zoppicava”, ma non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e vedete che la cosa cambia già aspetto. Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “ufficiale pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo grado del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle” e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di guerra”.

E’ in circostanze del genere che Franti sorride e ride: ” Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”. Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Sardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che la negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’unico modo per esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di non accettarlo a priori. E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola d’odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti: “Io detesto costui. E’ malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni dalla giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse. Dicono che sua madre è malata dagli affanni che le dà, e che suo padre lo cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. Il maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno: – Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo nel ventre”.

E’ naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti (pensate, “si coprì il viso con le mani, come se piangesse e rideva!” Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro quasi parallelo: ed è il ritratto di Panurge. …

… Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra – ci beve e si ciba, chiedendo anzi ristoro in molte lingue – vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi, accetta dispute con i dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi), intraprende discorsi ma per turpinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle sue vesti un nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti. Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il Gargantua è, rispetto alla cultura tadomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno di Panurge in questa impresa è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva.

Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. …

… Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il Comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro, Franti non ha neppure abbozzato il suo compito. …

… Eliminato dal contesto fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà: ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati. Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe dovuto assumere – ostentando buona fede – i panni di Enrico e scrivere lui stesso il Cuore. Col sogghigno – invece che col singhiozzo – facile. Siccome non ha raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico, ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza inspiegabile e non risolta.

Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la mano ancora calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.